“Abbiamo una ragione per far quel che facciamo!”

PANCALDINE-18

Le ragazze della Pancaldi

Raccontare delle ragazze della Camiceria Pancaldi & C. è come raccontare di un mito paragonabile a quello delle mondine.

Non a caso quasi tutte provenivano da famiglie contadine e bracciantili, inurbate a seguito della meccanizzazione massiccia introdotta nel lavoro agricolo. Sicuramente avevano memoria delle grandi lotte bracciantili, che le avevano sfiorate e forse anche coinvolte personalmente.

Sono operaie per la maggior parte con un’istruzione elementare e molto giovani, fra i 20 e i 30 anni; pochissime superano i dieci anni di anzianità in azienda.

Forse per la loro gioventù, forse perché i ritmi di lavoro erano insopportabili, ma queste ragazze avevano davvero delle “belle e buone lingue” e nessuna paura del Pancaldi al punto da occupargli la fabbrica per quasi un mese filato.

Siamo agli inizi del 1968. La produzione si blocca su una vertenza che riguarda essenzialmente il salario e i ritmi di lavoro, ma nel tempo si arricchisce di ben altri temi, fino a diventare un modello contrattuale, cui perfino il sindacato “principe”, la FIOM, farà riferimento.

Come tutte le storie vere, anche la storia dell’occupazione della Pancaldi viene da lontano, dagli anni ’60 costellati di proteste, contestazioni, vertenze fallite, vertenze conquistate. Tuttavia è un fatto che nel 1968 alla Pancaldi c’erano 400 operaie e 10 operai, che lavoravano 48 ore la settimana, più lo straordinario obbligatorio, e che producevano 1540 camicie al giorno. Sui sette nastri trasportatori applicati alle macchine da cucire le operaie avevano 2′ e 10” per completare la propria operazione. E chi non riusciva a stare al ritmo doveva recuperare oltre l’orario, e non certo pagata.

Una fabbrica, dunque, moderna, potremmo dire con una organizzazione fordista, con una proprietà ostile ad ogni proposta di miglioramento delle condizioni di lavoro; insomma, tutto secondo il cliché.

E intanto, fuori, oltre i confini di Corticella, la città scopre, e incontra, la protesta giovanile che viene dalle scuole e dall’università; una protesta prima di tutto antiautoritaria, ma poi anche contro una scuola che non fa i conti con la realtà, con quella ventata di egualitarismo che sempre, all’inizio, porta con sè il benessere economico, salvo poi rifluire velocemente al primo accenno di crisi.

Ed ecco che le ragazze della Pancaldi, a dire il vero molto ben guidate dal sindacato, entrano in contatto col movimento studentesco, in particolare con i ragazzi di Medicina e Psicologia, e ne nasce una ricerca sulla salute nel posto di lavoro. Approfittando dell’occupazione gli studenti intervistano 40 donne della Pancaldi sulla propria salute, sulle condizioni di lavoro, sui rapporti interpersonali, sulle condizioni di vita. Ne deriva uno spaccato straordinariamente significativo: tempi di lavoro troppo veloci, pause troppo brevi, 20% di assenze giornaliere, eliminazione del medico di fabbrica; niente asilo nido; disturbi a gambe e schiena e problemi circolatori diffusi a causa delle posture gravose; rapporti interpersonali ridotti all’osso a causa della stanchezza. A ciò va aggiunto che non esiste una mensa: si mangia cibo portato da casa in 55′ sui tavoli di lavoro del magazzino tra lo spogliatoio ed i gabinetti, solamente sette, di cui due sempre inagibili, per 410 persone.

Un grave disagio, dunque, generalizzabile alle aziende simili alla Pancaldi, che non può essere sottaciuto nella vertenza aziendale. E’ la prima volta che si affronta con chiarezza il tema della salute in fabbrica. Ma è anche la prima volta che viene espressamente scelto di coinvolgere gli enti pubblici sul diritto alla salute nel luoghi di lavoro. Ne deriverà una nuova attenzione alla salute ed all’ambiente, che poi produrrà, nella nostra regione in particolare, le équipe di medicina del lavoro ed il grande capitolo, che segnò di sé gli anni ’70, della prevenzione nel nostro sistema sanitario.

Abbiamo voluto dedicare a quelle donne straordinarie una piccola mostra che le ritrae nei giorni di quel fatidico sciopero, perché rimanga memoria dell’impegno, ma anche della “leggerezza” con cui affrontarono la prova.

Elisabetta Perazzo

“Scelgo di parlare della esperienza dell’occupazione della fabbrica Pancaldi, perché segnò una fase di passaggio e credo possa avere collegamenti con ciò che accade oggi.

La vertenza della Pancaldi si è collocata in una fase di passaggio, in un contesto economico e sociale di profonda trasformazione, in cui il mondo femminile ha avuto un peso importante nella nostra provincia. Si era nel passaggio da un’economia agricola ad un’economia industriale.

Credo che la Pancaldi si possa definire un simbolo della lotta operaia nella nostra provincia, nel momento di crescita dell’industria manifatturiera.

Quella lotta segnò anche l’avanzamento nei diritti civili e sociali.

Chi erano le operaie della Pancaldi?

Erano donne in gran parte espulse dalla campagna e altamente motivate a battersi per costruire per sé e per la loro famiglia un futuro umano, di garanzia del lavoro e di dignità.

Questo erano le operaie della Pancaldi.

Ogni tanto sento dirigenti che dicono che i lavoratori non possono scioperare perché sono precari, non hanno mezzi e quindi non possono rinunciare ad una giornata di lavoro. Queste operaie cominciarono nel ’61 con 20 giorni di sciopero per ottenere, non più salario, ma il diritto ad avere la Commissione Interna, una rappresentanza sindacale che si battesse per i diritti sul lavoro.

Si battevano inoltre contro l’autoritarismo della proprietà, per trasformare il sistema produttivo, per ridurre i tempi di lavoro, per avere migliori condizioni di vita nella fabbrica.

Negli anni ’60 realizzammo anche un rapporto con il movimento studentesco ed assieme a medici e specialisti si fece la prima indagine sulle condizioni di vita di quelle operaie… e da lì è partita nel 1968 la battaglia che queste operaie hanno fatto.

Occupammo la fabbrica nel ’68, dopo un anno di grande difficoltà per il sindacato, durante il quale i metalmeccanici, una categoria sempre più forte, era riuscita ad aprire vertenze solo in 23 aziende a Bologna e solo in due di queste aziende riuscì a realizzare un accordo.

La partita che aprimmo alla Pancaldi fu, quindi, di grande stimolo per tutti e segnò una fase contrattuale in tutti i settori; tanto è vero che fra il 1968 ed il 1969 i meccanici fecero 247 accordi aziendali.

Le battaglie sindacali bisogna che siano motivate, e quelle ragazze erano motivate. In quelle battaglie non c’era solo la questione dei diritti, c’era anche l’emancipazione femminile. Allora c’erano ancora le fasce salariali per età, per genere, per zone territoriali. I diritti rivendicati erano non solo quelli sindacali e di rispetto della persona, ma anche di parità salariale.

Bisogna rimotivare il mondo giovanile e quello femminile in particolare e la CGIL deve essere sempre più punto di riferimento in queste battaglie per la qualità della vita delle persone. Riprendiamo quel cammino…”

Dall’intervento di Giorgio Ruggeri*

a “Idee al Lavoro” 25 maggio 2013 Bologna

*Fu protagonista di quella lotta come segretario generale dei tessili CGIL

http://www.cgilbo.it/event/donne-lavoro-liberta/

Inaugurazione della mostra in Camera del Lavoro – 21 aprile 2017

One thought on ““Abbiamo una ragione per far quel che facciamo!”

  1. Pingback: La lotta nella camiceria Pancaldi nelle immagini dell’Archivio Paolo Pedrelli | Mistic Media Blog

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